I messaggi WhatsApp sono documenti informatici
Nel nostro ordinamento vige il cd. principio di tipicità dei mezzi di prova, in base al quale possono avere accesso nel processo civile soltanto le prove espressamente previste e disciplinate dalla legge.
Per quel che ci interessa, l’art. 2712 c.c. prevede che le riproduzioni meccaniche, fotografiche, informatiche (CAD) o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime.
L’art. 2719 c.c. dispone inoltre che le copie fotografiche di scritture hanno la stessa efficacia delle autentiche, se la loro conformità con l’originale è attestata da pubblico ufficiale competente ovvero non è espressamente disconosciuta.
Proprio partendo da tali disposizioni, la Cassazione aveva già riconosciuto pieno valore probatorio per gli SMS e per le immagini contenute negli MMS, ritenute “elementi di prova” integrabili con altri elementi anche in caso di contestazione (Cass. Civ. 11/5/05 n. 9884), chiarendo peraltro che in caso di disconoscimento della “fedeltà” del documento all’originale, rientrerebbe nei poteri del Giudice accertare la conformità all’originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni (Cass. 26/01/2000 n. 866, ex multis).
Allo stesso modo, tali disposizioni normative sono state invocate con riguardo ai messaggi WhatsApp ai quali peraltro, costituendo documenti informatici (ormai equiparati ai documenti tradizionali ai sensi della L. 40/08) a tutti gli effetti, si applicano tutte le norme in materia presenti nel nostro ordinamento.
Ciò chiarito, ecco dunque le principali sentenze in materia civile riguardanti il valore probatorio delle conversazioni intrattenute virtualmente in una chat WhatsApp.
Il valore delle trascrizioni dei messaggi WhatsApp (Trib. Milano Sez. lavoro, Sent., 24.10.2017)
In primo luogo, si rileva che la trascrizione dei messaggi WhatsApp è inutilizzabile e non può essere considerata congrua prova senza la produzione dei supporti informatici contenenti le conversazioni.
In caso di contestazione specifica e disconoscimento formale di tali messaggi, per valutare la veridicità di quanto asserito e verificare la corrispondenza della documentazione prodotta ai messaggi effettivamente inviati e contenuti nell’app in questione, il Giudice può infatti disporre un’apposita consulenza tecnica d’ufficio.
Ma in assenza dei supporti informatici (ad es. gli smartphone o il pc, in caso di WhatsApp Web) nei quali sono contenute le conversazioni in chat, non è possibile conferire ad esse valore probatorio, neppure attraverso un ordine di produzione che, in considerazione delle preclusioni processuali, avrebbe natura esplorativa e surrogatoria di oneri processuali di parte non assolti.
Nel caso in esame, una lavoratrice aveva ricevuto una contestazione disciplinare per aver intrattenuto conversazioni gravemente lesive dell’attività aziendale in una chat WhatsApp a cui partecipavano anche altre colleghe.
Tali conversazioni WhatsApp erano state rinvenute sul telefono aziendale di una collega dopo il suo licenziamento da parte del datore di lavoro il quale, grazie ad un backup del cellulare aziendale, aveva avuto modo di apprendere che anche altre dipendenti, tra cui la ricorrente, sceglievano ed inviavano risorse per nuocere all’azienda sul piano economico e dell’immagine, e boicottavano l’attività d’impresa, pregiudicando la riuscita di determinati eventi o ostacolando l’attività dei colleghi.
In giudizio sono stati tuttavia prodotti soltanto gli stralci di tali conversazioni via chat: considerato che le stampe dei messaggi prodotti sono state espressamente contestate dalla ricorrente e che non sono state dunque utilizzabili come mezzo di prova, è risultata dimostrata l’insussistenza del fatto contestato.
Alla stessa conclusione è giunto il medesimo Tribunale di Milano in un altro giudizio, nel quale sono state considerate prive di qualsiasi valore probatorio le conversazioni WhatsApp e Sms estratte dall’utenza telefonica e prodotte con trascrizioni su fogli Word (Trib. Milano Sez. lavoro, Sent., 06.06.2017).
Il licenziamento scritto intimato via WhatsApp (Trib. Catania Sez. lavoro Ordinanza, 27.06.2017)
Cosa accade se il datore di lavoro intima il licenziamento utilizzando WhatsApp?
In tema di forma scritta del licenziamento prescritta a pena di inefficacia non sussiste per il datore di lavoro l’onere di adoperare formule sacramentali, potendo, la volontà di licenziare essere comunicata al lavoratore anche in forma indiretta purché chiara (Cass., civ. sez. lav., 13 agosto 2007, n. 17652).
Partendo da tale circostanza, il Tribunale di Catania ha ritenuto che il recesso intimato a mezzo WhatsApp assolva l’onere della forma scritta trattandosi di documento informatico che parte ricorrente ha con certezza imputato al datore di lavoro, tanto da provvedere a formulare tempestiva impugnazione stragiudiziale.
Inoltre, considerato che la legge, nel prevedere che il licenziamento debba essere intimato per iscritto, non specifica quale mezzo debba essere usato, ma solamente che sussista la prova che la comunicazione sia arrivata al destinatario, WhatsApp deve considerarsi uno strumento valido a tutti gli effetti.
Grazie agli ultimi aggiornamenti, è infatti possibile verificare che il messaggio sia stato consegnato e letto dal destinatario: come noto, sul telefono di chi scrive, a fianco al testo, è infatti visibile
una spunta verde nel momento in cui il messaggio sia stato inviato,
due spunte verdi nel momento in cui il messaggio sia stato consegnato
2 spunte blu nel momento in cui il messaggio sia stato letto.
e tale riscontro è peraltro completo della data e dell’ora di ricezione e lettura.
Il messaggio inviato via WhatsApp è stato pertanto considerato un documento informatico che, laddove ricevuto, ha piena validità di prova, a maggior ragione se il dipendente impugna il licenziamento cosi avvenuto nel caso in esame, dimostrando in modo inequivocabile di aver ricevuto e di aver imputato il messaggio con certezza al datore di lavoro.
Riconoscimento di un debito via WhatsApp (Trib. Ravenna sent. 231 del 10.3.2017)
Che valore hanno i messaggi WhatsApp con i quali sia riconosciuto di dover corrispondere una somma di denaro al destinatario?
Con la sentenza n. 231 del 10.3.2017, il Tribunale di Ravenna ha condannato una donna alla restituzione del denaro che l’ex amante le aveva prestato per acquistare un’auto basandosi sul contenuto di conversazioni intrattenute su WhatsApp e prodotte in giudizio.
Nei messaggi, infatti, la donna si era impegnata a restituire le somme pagate dall’ex amante, versando rate mensili e offrendo servizi di pulizia domestica.
Oltre a quanto rilevato, facendo riferimento alle conversazioni WhatsApp, il Giudice aveva inoltre accertato che tra le parti non c’era stato un rapporto di convivenza more uxorio o di fidanzamento ma che si trattava di una mera relazione amorosa clandestina di poco impegno.
Di conseguenza, la dazione di denaro di una parte all’altra risultante dai messaggi scambiati in una chat di WhatsApp è stata considerata un prestito a tutti gli effetti, dovendosi ritenere escluse le liberalità d’uso, con il conseguente obbligo alla restituzione delle somme.
In altre parole, alla luce della sentenza citata, il messaggio inviato in una chat di WhatsApp con il quale si afferma di avere un debito nei confronti del destinatario equivale ad un riconoscimento del debito stesso ex art 634 c.p.c.
Ne consegue, che deve essere prestata particolare attenzione a quello che si scrive su WhatsApp, giacché le chat restando nella memoria dello Smartphone, possono costituire piena prova dinanzi al Giudice.
Conclusioni: come produrre conversazioni WhatsApp in giudizio?
Alla luce di tutto quanto affermato, da un esame della giurisprudenza più recente emerge chiaramente che le conversazioni WhatsApp possono avere valore probatorio in un processo civile, anche nel caso in cui vengano contestate dalla parte nei confronti della quale sono state prodotte.
Sembra dunque opportuno concludere con un approfondimento circa la corretta procedura per la loro produzione in giudizio.
Come già rilevato e confermato anche dalla Corte di legittimità (v. Cass. sentenza 49016, sezione Quinta Penale del 25.10.2017), la trascrizione delle conversazioni WhatsApp è utilizzabile ai fini probatori ma è condizionata dall’acquisizione del supporto – telematico o figurativo – contenente la menzionata registrazione. Infatti, la trascrizione non è altro che una riproduzione del contenuto della principale prova di cui pertanto devono essere controllate l’attendibilità, la veridicità e la paternità mediante l’esame diretto del supporto.
Invero, la Cassazione non ha specificato espressamente come acquisire i messaggi WhatsApp come prova in un processo, ma ha lasciato intendere che se insieme alle trascrizioni sia depositato il dispositivo elettronico originale, i dati possono essere accettati e utilizzati in giudizio.
Avvenuto il deposito nelle modalità suindicate, lo smartphone o il supporto informatico potranno dunque essere sottoposti alla perizia di un tecnico nominato dal giudice che dovrà verificare che il testo non abbia subito alterazioni.
Oltre a quanto evidenziato, per conferire maggiore valore probatorio ai messaggi e superare qualsiasi possibile contestazione, è altresì possibile munirsi di
una relazione tecnica di un consulente informatico
una copia conforme ed autenticata dei messaggi Whatsapp a uso legale (inclusi anche SMS, messaggi, chat o gruppi di qualunque altro sistema di Instant Messaging tra cui Telegram, Viber, iMessage, Facebook Messenger o Skype), da depositare in giudizio.
A tale ultimo riguardo, sarà necessario procurarsi un’attestazione di conformità delle trascrizioni o degli screenshot alle conversazioni originali presenti sul supporto informatico esibito, da parte di un notaio o di un altro pubblico ufficiale (come le forze dell’ordine).