Con l’ordinanza n. 35602/2021 i giudici della Suprema Corte di Cassazione, sul caso in esame, hanno chiarito che “le lesioni provocate da un colpo involontario, durante la prova d’esame di arti marziali, non fanno sorgere il diritto al risarcimento”.
Come da consolidato orientamento, l’esercizio di una attività sportiva agonistica comporta l’accettazione del rischio che da essa possa derivare un pregiudizio. Pertanto, i danni eventualmente sofferti dai partecipanti all’attività, nel caso in cui rientrino nell’alea normale dello sport praticato, ricadono sugli stessi ed agli organizzatori dell’evento, per sottrarsi da ogni responsabilità, basterà predisporre le normali cautele idonee a contenere il rischio per la specifica attività sportiva esercitata, in ossequio ad eventuali regolamenti sportivi.
Occorre, premettere che la responsabilità dei gestori degli impianti sportivi e degli organizzatori degli eventi è una responsabilità oggettiva. Difatti, tali soggetti hanno l’obbligo di garantire la sicurezza degli atleti, adottando tutte le misure necessarie per evitare che si possano verificare eventuali danni agli stessi. Devono, altresì, garantire l’idoneità delle strutture, controllare le attrezzature ed effettuare la manutenzione, predisponendo, a tal fine, tutte le misure di sicurezza necessarie.
IL CASO: Tizio per mano di Caio subiva la frattura del setto nasale durante la prova di esame di arti marziali, presso la struttura ove praticava lo sport Ju Jitsu. Al fine di ottenere il ristoro di quanto patito, il primo conveniva in giudizio il secondo che, a sua volta, chiamava in causa la Compagnia assicurativa. La domanda di risarcimento veniva rigettata sia dal Giudice di prime cure e sia da quello del gravame, entrambi con la ratio decidendi che, nel caso di attività sportiva, chi vi partecipa accetta l’alea dei danni che possono derivare durante quella specifica pratica.
Pertanto, avverso la decisione di secondo grado Tizio promuoveva ricorso in Cassazione, lamentando, con un unico motivo di doglianza, la violazione dell’art. 2043 c.c. ed omesso esame di un fatto decisivo. In particolare, il ricorrente asseriva che “la regola applicata dal giudice di merito vale per gli incontri agonistici o per l’attività sportiva in senso stretto, mentre in questo caso, fatto la cui considerazione sarebbe stata omessa, l’incidente si era verificato durante un esame per il conseguimento di un livello superiore ed il ricorrente era stato chiamato a fare da sagoma umana, all’interno di un combattimento simulato”. Inoltre, lo stesso continuava, concludendo, che, nel caso de quo, non essendoci stata una vera e propria attività sportiva si è fuori dall’alveo di applicazione della regola che pone l’accettazione del rischio come criterio di esclusione del ristoro.
Tuttavia, secondo la Suprema Corte, il motivo è infondato.
LA DECISIONE: i giudici della Corte di Cassazione evidenziano che, come da giurisprudenza risalente della Corte stessa, “l’attività agonistica implica l’accettazione del rischio ad essa inerente da parte di coloro che vi partecipano, per cui i danni da essi eventualmente sofferti rientranti nell’alea normale ricadono sugli stessi, onde è sufficiente che gli organizzatori, al fine di sottrarsi ad ogni responsabilità, abbiano predisposto le normali cautele atte a contenere il rischio nei limiti confacenti alla specifica attività sportiva, nel rispetto di eventuali regolamenti sportivi” (Cass. n. 1564 del 1997; Cass. 20597 del 2004; Cass. n. 2710 del 2005)”.
È necessario, secondo i Giudici di legittimità, sottolineare la presenza di alcune distinzioni. Nello specifico, se il danno è causato pur nel rispetto delle regole del gioco, in tal caso esso “si connota in termini di imprevedibilità in ragione dello scopo della norma violata: le regole del gioco infatti possono essere a presidio del gioco stesso, come a presidio della incolumità dell’avversario (in alcuni sport di contatto, il divieto di colpi bassi). In questi casi se lo sportivo procura danno, pur nel rispetto della regola di gioco, il danno può non porsi a carico del danneggiante per difetto di colpa”; se il danno è causato colpevolmente in violazione delle regole del gioco, in particolare di quelle che mirano a tutelare l’incolumità altrui: “in questo caso non si tratta di una scriminante, né tipica (consenso dell’avente diritto), né atipica, che altrimenti, l’attività sportiva sarebbe da considerare come illecita, ed invece è attività consentita e socialmente utile”.
Ciò detto, bisogna valutare la rilevanza della colpa ai fini dell’accertamento della responsabilità. Da questo punto di vista, infatti, non è sufficiente, in generale, sostenere che lo sportivo accetta il rischio e, dunque, non può pretendere, a priori, il risarcimento di alcun danno che derivi dall’attività sportiva. Difatti, sottolineano gli Ermellini, “l’atleta accetta il rischio normalmente connesso a quel tipo di sport, non ogni rischio derivante dalla condotta altrui, anche dolosa”.
Di conseguenza, va giustamente escluso dalla regola dell’accettazione del rischio il fatto doloso o dovuto a colpa particolarmente grave (Cass. n. 12012 del 2002). In quest’ultimo caso, dunque, l’atleta sarà considerato responsabile, civilmente e penalmente, e, pertanto, obbligato a risarcire lo sportivo danneggiato di tutti i danni patrimoniali e non, che sono conseguenza dell’atto posto in essere. Il dolo, invece, sussiste quando l’atto violento non è contemplato dal regolamento dello sport praticato e, quindi, i danni sono causati senza alcun rapporto di funzionalità con lo sport praticato. In altri termini, lo stesso si avrà, ogniqualvolta, gli atleti per il tramite dell’attività sportiva commettano volontariamente un danno all’avversario.
Nell’accertamento della colpa, tuttavia, ciò che potrà rilevare è la qualità dell’atleta. Infatti, spiega la Corte, allo sportivo professionista viene richiesta una maggiore attenzione rispetto al dilettante, il quale, ex adverso, “non ha le capacità tecniche di chi invece esercita l’attività sportiva su basi professionali e che meglio sa conformare la propria condotta alle regole di gioco”.
Da ultimo, viene precisato, altresì, che il principio consolidato vale sia per l’attività sportiva svolta in forma agonistica, sia che si tratti di un allenamento o di un esame sportivo. A nulla, pertanto, rileva la natura dell’attività svolta: “non v’è motivo di distinguere a seconda della “occasione” e delle finalità per cui l’attività sportiva è svolta (se un allenamento, una prova o una competizione), mentre una distinzione rilevante può farsi rispetto ai dilettanti, proprio perché la risarcibilità del danno, come si è detto, dipende dal tipo di difformità del comportamento rispetto alla regola cautelare (danno causato pur nel rispetto della regola del gioco; danno causato in violazione, ma con colpa; danno causato in violazione, ma con dolo)”.
CONCLUSIONI: Al lume di quanto precede ed essendo, peraltro, il motivo basato unicamente sulla distinzione tra attività sportiva stricto sensu e prova di esame, secondo i Giudici del Palazzaccio, lo stesso non può essere accolto, in quanto le regole dell’una sono identiche per l’altra e la distinzione, essendo di mera finalità del medesimo sport, non incide in alcun modo sulla valutazione della colpa rispetto alla regola cautelare violata. Per tale ragione la Cassazione ha rigettato il ricorso.